È stata una lunga pausa, la mia. In un certo senso, è iniziata quando S. uscí dalla mia vita (la notte prima della discussione della tesi, con una chiamata Italia-Spagna, una di quelle che ci facevamo ogni due settimane —chiamavo io). S. rientró, a sprazzi, e ne uscí allo stesso modo.
Io avevo i suoi quadri, quelli che mi aveva regalato. Li ho ancora. Non fanno più male, ma ci sono notti, come quella di oggi, in cui i barattoli di pigmenti, l'odore di acrilico e le sue dita e la faccia sporca di arcobaleni acrilici (ma sei sicura di star dipingendo sulla tela?) ritornano come un vecchio blues che ha perso la forza di farti piangere ma che accogli come un vecchio compagno, ormai, con il quale ti sei riconciliato.
Quel giorno S. mi disse che a casa sua non avevano carbone per la caldaia (4 figli, tutti all'università e la madre —marito perso in un accidente quando S aveva un anno— che sbarcava il lunario con un chiosco di caramelle e panini fatti in casa per gli studenti della scuola del paese) per cui l'inverno sarebbe stato complicato. Dietro la casa di S. c'era un boschetto di eucalipti, un pezzetto di terra che il nonno aveva dato alla madre. Io non avevo una lira. Traduzioni non ne arrivavano e quelle che arrivavano servivano per, ogni tanto, fare un po' di spesa e così lavarmi (senza sapone) la coscienza e raschiarmi di dosso il sentimento di stare scroccando pranzi e cene (e letto). Rimanevano sempre delle macchie.
Ebbi un idea e chiamai M., l'amico, il mio amico pescatore, tassista, con una laurea in legge che non avrebbe mai portato a termine perché bisognava andare con il padre e la barca tutti i giorni. L'amico che mi regalaba pace, lo avrei ascoltato per ore. Chiedemmo permesso alla madre di S. di tagliare un po' di eucalipti: la caldaia funzionava anche a legna. Le si illuminarono gli occhi: non ci aveva pensato... cosí come non aveva pensato a come eliminare i ratti da casa (il gatto da solo non ce la faceva, cosicché un giorno comprai del cemento e mi misi a cercare i buchi da dove entravano, e li tappai, improvvisandomi muratore).
M. e io passammo due giorni a tagliare alberi, sfrondarli e tagliarli di nuovo a misura della porticina della caldaia. E C., la madre di S. cucinò come non aveva mai fatto: due giorni di banchetto.
Seppi che la legna non era bastata per tutto l'inverno, mesi dopo, quando ero andato già via e S. era con me in Italia, in una casa con riscaldamento (caldaia a legna, pure, ma svedese, di quelle che quasi non lasciano cenere, tanto sono efficienti) e c'era la neve, e S. indossava il mio giaccone perché con il suo aveva freddo. No, non era casa mia, io continuavo a vivere di libri e una vita prestata (grazie G.) e a chiedere soldi ai miei, che si consumavano le mani per farmi studiare (grazie mille volte). Era il 1998. Un secolo fa.
La Grande Pausa iniziò più o meno allora, quando S.tornò in Spagna e io iniziai a ricevere meno lettere (e a scriverne di più). Pochi mesi dopo ero kappaò. Era bastata una telefonata.
Oggi, tredici anni dopo, ho rivisto un po' di foto.
Ma ho deciso di scrivere in italiano. Era tanto che non lo facevo.
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